ROMA-Il Wimbledon dei ritorni, sia nel torneo maschile quanto in quello femminile: per una volta tanto la finale del maschile non sarà la solita battaglia tra “vecchietti” Federer-Nadal bensì Djokovic-Anderson, inedita per entrambi usciti da match maratona in semifinale, contro due avversari ben diversi per la classifica ma che l’erbetta londinese riavvicina per le caratteristiche tecniche. Il serbo Djokovic, che è stato numero 1 per 223 settimane tra il luglio 2011 e il novembre 2016, aveva perso la trebisonda scendendo al numero 21 del ranking Atp, complice una confusione tecnica che lo ha portato a cambiare alcuni coach con risultati non da top-ten. Oggi, con questa finale conquistata, si può dire ritrovato, anche perché ha battuto Nadal, numero 1 del mondo, non uno qualsiasi, superandolo per 6/4 3/6 7/6(9) 3/6 10/8, in quasi cinque ore ed un quarto complessive di gioco. Per Djokovic sarà la ventiduesima finale Slam (12 i trofei già conquistati), la prima a quasi due anni di distanza da quella raggiunta agli Us Open del 2016, e la quinta a Wimbledon dove ha già trionfato nel 2011 (su Nadal), nel 2014 e 2015 (su Federer), mentre ha ceduto a Murray nel 2013. “Tante cose mi sono passate per la mente durante il match”, ha confessato il serbo in conferenza stampa a fine incontro, “ho rivisto gli ultimi 15 mesi della mia carriera e tutto quello che ho dovuto fare per tornare a giocare a certi livelli ed essere ora di nuovo nella finale di questo torneo, nel tempio del tennis”. “E’ stato il match più lungo e difficile della mia vita – ha ammesso Djokovic – giocato in due giorni: ora sono felicissimo. Era chiaro che ci separavano pochissime cose in campo: poteva finire in qualsiasi modo. Ma è proprio questo il genere di partite per le quali vivi e lavori”. E adesso, l’ostacolo Anderson. Djokovic è in vantaggio per 5-1 nel bilancio dei confronti diretti, vincendo gli ultimi cinque, due proprio sui prati di Church Road: al secondo turno del 2011 (in tre set) e negli ottavi del 2015 (per 7/5 al quinto dopo aver rimontato uno svantaggio di due set a zero). E’ un ritorno anche quello di un sudafricano, in questo caso Anderson, numero 9 del mondo (che ha eliminato Seppi in quattro set al secondo turno) a grandi livelli; l’ultimo fu a Wimbledon Kevin Curren finalista nel lontano 1985, edizione storica perché ad alzare il trofeo fu il tedescone Becker allora 17enne. Anderson, 32enne di Johannesburg, approdato alla sua seconda finale Slam dopo quella persa agli US Open dello scorso anno contro Nadal, è stato bravo ad uscire vincitore in rimonta da due maratone; la prima nei quarti contro Sua Maestà Federer, n.2 del mondo, eliminato 13/11 al quinto set (Federer aveva vinto i primi due set); la seconda, un vero e proprio braccio di ferro con il bombardiere statunitense Isner, n.10, battuto 26/24 al quinto set (Isner conduceva 2 set a 1) nella semifinale più lunga della storia all’All’England Club, durata 6 ore e 35 minuti, secondo match per durata solo a Isner-Mahut del primo turno 2010 vinto da Isner su Mahut in 11 ore e 5 minuti. Il grande escluso da questa finale, l’iberico Nadal, comunque con la semifinale raggiunta può consolarsi avendo consolidato la leadership mondiale su Federer (ora sono 2.230 i punti di vantaggio sullo svizzero).
Era un ritorno anche la vincitrice del torneo femminile, qualunque essa fosse stata, perchè sia Serena Williams che Angelique Kerber sono state numero 1 del ranking, e si erano perse per strada per vicissitudini diverse (la maternità a 35 anni la prima, questioni tecnico-motivazionali la seconda). Ha trionfato la tedesca Kerber con un duplice 6/3 avendo fatto valere il suo gioco quasi di controbalzo, che sul’erba spellacchiata del Centrale è una manna dal cielo visto che la pallina rimbalza pochissimo. Ora la tedesca diventerà 4 del mondo mentre Serenona, da numero 181, si posizionerà al 28. “Voglio dimostrare di essere tornata”, aveva detto alla vigilia della finale: ce l’ha fatta, anche perdendo. Ma forse a mordersi le mani è la marchigiana Giorgi, l’unica ad aver strappato un set alla Williams nei quarti di finale prima dell’ultimo atto: bisognava far correre Serena, farla piegare, muovere il più possibile. Ma le varianti tattiche purtroppo non sono il pezzo forte dell’azzurra.
Andrea Curti
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