Forse, quasi certamente, l’ultimo grande ululato di Howlin’ Wolf, questo disco è di sicuro il tributo definitivo a un re al culmine della sua parabola artistica. Il maestro che suona con i suoi discepoli di oltreoceano. La genesi di questo album, nasce nella testa di Norman Dayron, giovane produttore della Chess Records: ha da poco finito le registrazioni per il disco di Muddy Waters, Fathers and Sons, un album dove il grande bluesman suona con i suoi più fidati allievi della scena di Chicago. Il risultato piace molto e Dayron vorrebbe ripetere la cosa con Mr. Burnett (Howlin’ Wolf). L’occasione si presenta nel backstage del Fillmore West, dove Mike Bloomfield, presenta Dayron ad Eric Clapton. Il giovane produttore parla della sua idea al chitarrista inglese che risponde subito in maniera entusiasta. Forte di questa risposta, Dayron avanza la proposta al capo della Chess, Marshall Chess, che subito non perde tempo e da il via libera alla realizzazione del progetto. “Non c’era un solo musicista britannico che non volesse partecipare al disco”, dirà in seguito Norman Dayron, ed in effetti come dagli torto: all’epoca il repertorio di Howlin’ Wolf era il più saccheggiato: Rolling Stones, Cream, Yardbird, tutti avevano inserito suoi brani nei rispettivi lavori discografici, affascinati dal suo stile potente e grezzo. Il progetto si concretizza nel giro di poche settimane, la location per le registrazioni sono gli Olympic Sound Studios di Londra, e Dayron mette insieme un cast di musicisti stellare: Eric Clapton, Hubert Samlin, Ringo Starr, Klaus Voormann e Jeff Carp. Nonostante questo, le registrazioni dell’album non sono una passeggiata: il carattere di Wolf è aspro, scontroso ed acido, accentuato anche dal suo recente intervento al cuore per via di un infarto. Infatti da subito, dopo un diverbio con Ringo Starr, il batterista dei Beatles e Klaus Voormann decidono di abbandonare il progetto dopo la prima sera. Ma già la mattina dopo l’allarme è subito rientrato: Glyn Johns collaboratore degli Stones chiama Billy Wyman e Charlie Watts, rispettivamente basso e batteria dei Rolling Stones. Trovata la quadratura del cerchio, le sedute di registrazione iniziano a prendere forma e sound: Wolf, a poco a poco si rilassa e riesce a trasmettere le sue idee ed il modo di intendere il suo blues. Quasi tutti i brani sono composizioni originali del bluesman e cover di Willie Dixon suo conterraneo. La band completamente (o quasi) british, conferisce alle registrazioni un sapore tutto nuovo, merito anche della onnipresente chitarra di Clapton. Un disco solo apparentemente caotico, visto la mole di stelle che suonano in questo album, che alla fine suona equilibrato e molto “London style”, in linea con le aspettative del mercato inglese. Una volta tornato a Chicago, Wolf dirà: “ Quei ragazzini di Londra hanno fatto davvero un bel lavoro”. L’album è veramente un capolavoro, un vero punto di incontro e lavoro di squadra, tra chi ha creato questo stile, e chi ha saputo vestirlo di nuovo, e sull’onda dell’ottimo successo commerciale, nel ’72 anche Muddy Waters farà lo stesso incidendo The London Muddy Waters Session. La magia del blues è questa: una musica che unisce popoli e terre lontane. Sempre e da sempre.

CRISTIANO SACCHI