di CRISTIANO SACCHI
E’ universalmente riconosciuto ed accettato in tutto il mondo che quando si parla di chitarristi la mente vola subito al personaggio simbolo di questo strumento, al guitar hero per antonomasia, colui che ha portato ad un’ inpennata improvvisa della vendita di questo strumento, e soprattutto della Fender Stratocaster, la chitarra che lui ha reso l’oggetto più ambito da ogni chitarrista novizio. Jimi Hendrix, il bluesman di Seattle volato in Inghilterra con la passione per i Beatles, è riuscito a creare un mix rock/pop/blues che in soli tre anni, dal ’67 anno di debutto del primo disco, al ’70 anno della sua morte, ha stravolto completamente le sorti della musica rock. Tre anni sono bastati a Hendrix per portare il livello tecnico compositivo e chitarristico ad punto mai più raggiunto da nessuno. Innovatore del rock psichedelico, ha gettato semi nell’acid rock, nell’hard rock e nell’ haevy metal, ma Jimi prima di tutto è un chitarrista blues. Blues è la musica che lo ha spinto ad imbracciare la chitarra, blues è il suo modo di suonare, è l’impostazione della mano con il pollice ancorato al manico. Blues sono i vinili che ascolta e consuma tra le pareti di casa, rinchiuso nella sua adolescenza misera e solitaria. Nella sua mastodontica discografia disorganizzata, Jimi Hendrix: Blues, è uno dei pochi album postumi prodotti da Alan Douglas ancora disponibili in commercio ed autorizzati e ristampati dagli eredi del chitarrista. Il disco è composto da undici brani in stile blues registrati da Hendrix tra il 1967 ed il 1970. Sette composizioni sono inediti del chitarrista, mentre le altre quattro sono cover famose di blues a lui cari. La maggior parte del materiale presente in questo disco, non era originariamente destinato alla vendita, ma sono ritagli, “scarti” ed improvvisazioni prontamente immortalate su nastro. L’album si apre nella maniera più blues possibile: Hear My Train A-Comin’, è Jimi solo con la sua dodici corde acustica, mostra tutto il suo talento e tutta la sua anima blues, senza riverenze, ma con tutto il rispetto verso i suoi maestri, siede nell’Olimpo blues insieme a loro, Born Under A Bad Sign è una jam strumentale sul brano di Albert King dove Hendrix si diverte a giocare con il suo pedale preferito: il wah-wah. Red House è l’altra sua composizione che sprizza blues dappertutto: brano leggendario ed iconico. Catfish Blues, cover di Muddy Waters, è un blues dal riff tagliente ed aggressivo, otto minuti di esaltante jam e pura improvvisazione tra chitarra e batteria, Voodoo Chile Blues, è la versione più “dolce” di quella contenuta nel disco Electric Ladyland, mentre Mannish Boy con il suo stile chitarristico funkeggiante è esplosiva e magnetica dopo pochi secondi. Once I Had A Woman, altro brano di Hendrix, tratta i temi cari ai vecchi blues: donne dannate che hanno spezzato il cuore per sempre. Bleeding Heart è una cover del suo idolo Elmore James, mentre Jam 292 è la seconda take del brano Jelly 292 apparsa sull’ LP postumo Loose Ends. Electric Church Red House è un’altra improvvisazione registrata ai TGG Studios. Il disco chiude il cerchio, e ripropone Hear My Train A-Comin’ in versione elettrica, dove Jimi mostra nello stesso brano l’altro suo io: elettrico e dannato. Insomma, diavolo e acqua santa, due volti, due modi di suonare diametralmente opposti che mettono in risalto la sua duttilità artistica. “La storia della vita è più breve di un battito di ciglia. La storia di un amore è ciao e addio finché non ci rivedremo”. E’ questo il suo ultimo pensiero prima della sua morte avvenuta la mattina del 18 settembre 1970 al Samarkand Hotel di Londra. La sua vita è stata maledetta, breve e vissuta al massimo come ogni artista che è entrato a far parte del “club dei 27”, e per noi forse va bene così, perché in fin dei conti Hendrix non è mai morto, ma lo ritroviamo ogni volta che inbracciamo una chitarra, ogni volta che sentiamo un disco dove è presente una chitarra, in ogni nota di chitarra lui è lì. E’ la storia del suo amore: ciao e addio. Alla prossima…nota.
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