Incassando la sconfitta in triplice cifra del suo excursus internazionale il rugby
azzurro ha sancito il suo cronico e irrimediabile complesso d’inferiorità rispetto alle
concorrenti del Sei Nazioni. Un altro cucchiaio di legno aggiudicato al passivo per la
squadra miracolosamente ammessa nel più competitivo torneo continentale e per
meriti che ora, sfuggono a tutti. Il nuovo citì Smith, sulla scia dei suoi predecessori,
incassa sconfitte a profusione e chiede tempo. Questa volta addirittura “otto anni
per vedere il XV italiano all’altezza delle altre squadre europee”. Un messaggio
subliminale, come dire: “Allora io non ci sarò ma sto lavorando per voi”. Ma anche
un modo per evadere dalle responsabilità. Investire sui giovani va bene ma quando
hai le spalle coperte da un pacchetto di mischia esperto. Ma non è il caso dell’Italia
che è capace, nel suo ristretto recinto di materia prima a perdere progressivamente
i migliori meta-men. In passato Nitoglia, nel presente Minozzi, l’unico in grado di
fare la differenza per cambio di passo. Si alternano i tecnici, cambiano i presidenti
del rugby italiano ma i risultati sono invariabilmente gli stessi. E la prossima partita
con il Galles ci lascia immaginare almeno 40-50 punti di distacco. I match dell’Italia
lasciano una parvenza di curiosità solo per 5’. Il resto è un cammino inclinato e
scosceso di mete subite, di clamorosi errori difensivi nella cronica incapacità di
avanzare. Dunque grande dispendio di energie per risultati praticamente nulli.
Anche la stampa ha preso a scherzare con questo rendimento modesto e non si
occupa con la stessa intensità di una squadra noiosa che propone sempre lo stesso
perdente copione e non sembra mai imparare alcuna lezione. I rimedio non
l’immissione a pioggia di naturalizzati che spesso sono la serie B di altre nazionali.
Eppure questo è un rugby ricco di risorse economiche, evidentemente non messe a
frutto come si dovrebbe.

DANIELE POTO