Le dimissioni catartiche di Zingaretti possono anche essere viste come un effetto a
catena dell’azione deflagrante attuata da Matteo Renzi a partire dal dicembre 2020
e i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Coalizione smottata, fuoriuscita di Conte,
brain storming rovinoso all’interno del Pd e ritirata strategica del segretario che, non
dimentichiamo è anche presidente della Regione Lazio. Soprannominato
nell’ambiente “Sor Tentenna” per la cronica indecisione nel prendere risoluzioni
importanti, Zingaretti è crollato sotto il peso delle correnti e del regolamento di
conti interni di un partito che non ha mai attuato una vera fusione tra le sue varie e
dissimili componenti. Lontanissimo dalla granitica compattezza del vecchio Pci, il Pd
è un po’ democristiano, un po’ centro- sinistra, un po’ centro di potere e di
camarille. E non è un caso che se ne siano allontanati uno dopo l’altro i personaggi
di maggiore spicco e personalità della politica del passato millennio: Prodi, D’Alema
e Veltroni. Ci si chiede ora che farà Zingaretti. Non sarà ospite fisso dalla D’Urso (è la
battuta conseguente al twitt che ha fatto franare il suo già claudicante carisma). E si
può anche escludere che giocherà la carta della scalata al Campidoglio in alternativa
alla Raggi (quella chance è già a disposizione di Gualtieri). Mediterà e tornerà nei
ranghi. Il candidato forte e inevitabile per la segreteria è l’evergreen Franceschini,
l’uomo opportunista per tutte le stagioni. Se gli avversari sono Cuperlo, Martina e
Orfini ovviamente non c’è lotta. Le dimissioni di Zingaretti comunque sono l’ultima
conseguenza dello sfarinamento totale della politica e dei partiti tradizionali.
Materia per i sondaggisti. Ora un fixing elettorale sarebbe quanto mai ondivago vista
la possibilità di spostamenti consistenti, anche considerando la dissoluzione del
Movimento cinque Stelle che non riesce a diventare partito ma che ha perso
dall’inizio della legislatura circa 100 elementi tra Camera e Senato. In questo caso il
carnefice designato è Casaleggio jr, anche per una vile questione di soldi.

DANIELE POTO