Con l’usato garantito della rielezione di Sergio Mattarella la politica italiana nel suo
complesso ha toccato uno dei punti più bassi della propria credibilità nella storia
Repubblicana dal 1946 a oggi. Bisogna interpretare le parole dei protagonisti,
autoreferenziali e consolatorie, per non aver saputo esprimere, omogeneamente
alla coalizione di governo, un candidato credibile nell’arco di un anno, più o meno da
quando Mattarella ha indicato Draghi come Presidente del Consiglio. Perdono quasi
tutti. La variegata composizione del centro-destra con Salvini somma pietra dello
scandalo; la Meloni all’opposizione e la scheggia impazzita di Forza Italia, sempre più
dipendente dai ricoveri ospedalieri e dai processi di Silvio Berlusconi; un Movimento
Cinque Stelle spaccato tra Conte e Di Maio (e con Grillo che chissà come la pensa); in
fondo anche Letta che pensava al pacifico spostamento di sede di Draghi (da Palazzo
Chigi al Quirinale) e invece è dovuto addivenire a più miti propositi. Bruciata una
serie di aspiranti al soglio presidenziale. Prima tra tutti la Casellati che con la propria
conclamata mancanza di stile ha gestito la febbrile attesa come peggio non poteva.
Può darsi che la storia non finisca qui e che ci sia un sottotesto ancora più
limaccioso. Che quanto sia avvenuto sia solo una sceneggiata per poi dar vita a un
cambio di scenario sul modello Napolitano. Mattarella che offre le dimissioni per
motivi di età e di salute dopo le elezioni del 2023 e Draghi che, esaurita la missione
emergenza, tra pandemia e PNRR, diventa Presidente della Repubblica,
accontentando un’ambizione mai celata. Del resto è stata l’occasione per ribadire la
necessità di un presidenzialismo all’italiana dando la possibilità ai cittadini di
eleggere il proprio presidente. Ma siamo sicuro che sarebbe stata la scelta migliore?
Forse con questo cambiamento rivoluzionario Berlusconi avrebbe avuto più chance
di quelle che gli siano state offerte nel gioco dei veti incrociati.
DANIELE POTO