A forza di vedere Federer sempre in giacca, pronto a presidiare premiazioni importanti o ricevere trofei alla carriera, ci avevamo fatto il callo sul suo ritiro tanto da snobbare le voci che continuamente insinuavano un suo ritorno in questo o quel torneo del circuito ATP. Un po’ come quando si ha un nonno ultranovantenne a cui vuoi un bene dell’anima ma sai che prima o poi ci lascerà. Il dolore (tennistico, ovviamente) è immenso, a maggior ragione vedendo che Alcaraz, Ruud e altri esimi robocop pallettari sono al vertice della classifica e di quel ricambio generazionale che prima o poi doveva avvenire, se non altro per l’incombere inesorabile del tempo. Federer, al di là dei venti Slam vinti, lascia una eredità tennistica pesante e chissà chi riuscirà mai ad avvicinarsi, sia per l’unicità e il talento dello svizzero, sia per la sportività che ha sempre dimostrato in campo (con eccezione dell’età giovanile) e negli spogliatoi, sia per la straordinaria eleganza dei suoi movimenti. A volte sembrava danzare sull’erba di Wimbledon, suonare la musica del tennis a Parigi, dipendere street-art in quel di New York e saltare come un canguro a Melbourne. Dovunque è andato ha trovato tifosi e fatto proseliti. Perché è stato il manifesto del tennis moderno, nella sua più completa accezione: qualsiasi colpo immaginava il suo cervello, la racchetta lo eseguiva con una maestria tale da affiancarlo ai vari Borg, Mc Enroe, Lendl, Connors, Sampras, Agassi, Edberg, Becker, e via dicendo. Qualsiasi parte del campo si trovasse faceva la cosa giusta, e i successi in ogni dove del globo (ben centodue) lo testimoniano: venti successi in trentuno finali del Grande Slam, terzo tennista di tutti i tempi dopo Nadal (22) e Djokovic (21) ancora in attività (per poco?), con l’erba londinese a farla da padrona con otto Wimbledon (record assoluto), poi sei Australian Open, cinque US Open e un Roland Garros. Oltre agli Slam, lo svizzero ha vinto sei ATP Finals (record) e 28 Masters 1000, più 24 ATP 500 e 25 ATP 250, con la chicca di una Coppa Davis con la nazionale rossocrociata (la prima nella sua storia) e l’oro olimpico nel doppio con Wawrinka a Pechino 2008 e l’argento a Londra 2012 nel singolare. Dunque finisce un’era, quella di King Roger, difficilmente ripercorribile per gli attuali atleti in circolazione. I tifosi, sentitamente, ringraziano.

Andrea Curti