Essere ciò che solo alcuni sono realmente. E dettano e decidono. L’analisi di una globalizzazione asimmetrica richiede sangue freddo. Per interpretare il mondo che viviamo occorre lucidità, tralasciando per un attimo il diario dei sogni. La realtà, scrivono Alexandre Del Valle e Jacques Soppelsa ne La mondialisation dangeurese è quella di un autodeclassamento dell’Occidente che nasce da un’errore di prospettiva o di presunzioneche ha consegnato il pianeta nelle mani della Cina. Si dovrebbe, dunque, parlare di “sinicizzazione della globalizzazione”, causata dagli appetiti di un’anglosfera che ha creduto di sfruttare la manodopera a basso costo di quell’estremo oriente non giapponesizzato, come primo passo della sua improbabile giapponesizzazione (del Giappone post Hiroshima naturalmente), dunque della sua occidentalizzazione. Senza evidentemente valutare correttamente le conseguenze della svolta politica in atto dagli anni ’80 nella Cina di Deng Xiaoping, padre anche e soprattutto della svolta economica di quel socialismo con caratteristiche cinesi che operò la transizione dall’economia pianificata all’economia aperta di mercato ma sotto la supervisione dello stato nella sua dimensione macroeconomica. Washington e Londra, dicono gli autori, hanno pensato di “recuperare” e “anglosassonizzare” la globalizzazione dell’antica repubblica veneziana giocando su deregolarizzazione, finanziarizzazione, delocalizzazione e deindustrializzazione. E credendo così che l’occidente potesse sostenere il mondo della finanziarizzazione ricollocando tutta l’industria pesante in Asia, nella convinzione, “che cela tutto il disprezzo degli anglosassoni per quei Paesi”, che Cina e India si sarebbero accontentati del ruolo di Paesi “imitatori” del sogno americano, così come accaduto nell’est Europa dopo la caduta del Muro. Ma in Cina la muraglia è ancora in piedi e non ha mai dato segni di cedimento, e nel frattempo anche l’India è cresciuta. Risultato: Pechino ci ha saccheggiati tecnologicamente. “Hanno più ingegneri di noi – dice Del Valle – sono all’avanguardia e ci hanno battuto in quasi tutti settori”. Un capolavoro d’autolesionismo, a quanto pare. E ora la Cina viene vista come il nuovo impero del male, il Grande Inquinatore, il nemico da abbattere e che come tale necessita di ricompattare il mondo libero d’occidente contro il nuovo satanasso dagli occhi a mandorla (creato in laboratorio dai teorici liberali del soft power, che se può essere andato bene negli anni ’80 contro un’Unione Sovietica già virtualmente implosa 10 anni prima, ha invece “creato” il mostro contro cui una società occidentale spaventata, molliccia e ora pure ipocondriaca dovrebbe, non si sa bene come, serrare i ranghi e mostrare i muscoli). E in tutto questo, l’istituzionalizzazione in territorio europeo della libera economia concorrenziale chiamata Unione europea, appare come le dindon de la farce, il ripieno del tacchino. L’UE si è sempre più consolidata, secondo gli autori, come “un protettorato dell’Impero romano d’America” che ha tradotto in senso quasi letterale il progetto del deep state USA di imporre il suo imperialismo, che per ora sembra in realtà certificare solo il declino dell’occidente e dell’Europa in particolare, riprendendo quanto scritto dal filosofo tedesco Oswald Spengler nel 1918. Da maestri incontrastati del mondo, della scienza, della tecnologia, degli scambi commerciali e dell’industrializzazione, gli europei segnano il passo. Ma per alcuni non è altro che la giusta punizione per la loro reticenza a non aver aderito alla logica del liberismo in dosi massicce e aver continuato ad aderire al formalismo giuridico e agli scrupoli morali che avrebbero impedito al vecchio continente di diventare una proiezione geopolitica a immagine e somiglianza di zio Sam. Al di là delle accuse provenienti dall’altra parte dell’Atlantico, scrivono Del Valle e Soppelsa, è evidente il legame tra la “profezia” di Spengler e le conseguenze della mondializzazione, “che, nella sua lettura sans frontieriste, implica la cancellazione delle identità e del principio stesso di sovranità”, in cui s’inseriscono le potenze del nuovo mondo multipolare (Cina, Russia, India, Turchia). Paradosso vuole che Pechino, anche se autoritario e violento, diventi il “contro modello più efficace” del feticcio liberal-democratico. Un contro modello, si fa notare, che si basa su ciò che per l’occidente è una provocazione inaccettabile: le 4 contro-potenze fanno, cioè, del sovranismo un aspetto fondamentale della loro postura geopolitica, agli antipodi con l’universalismo occidentale. Ecco, dunque, che la mondializzazione vista dalle élite americane ed europee “come il trionfo della loro ideologia planetario-libertaria che si fonda sulla fine delle identità, può essere analizzata come un’ultima fase di un processo morfologico di, parafrasando Spengler, scomparsa di civiltà”. Questo, si osserva, può spingere l’Europa a delegittimare qualsivoglia potenza sovrana e la sua propria identità, “nel nome di una visione internazionalista votata al fallimento”, che non può che accentuare la propensione delle altre 4 potenze a guardare con diffidenza, se non con odio, un occidente, “di cui l’UE appare come il ventre molle votato a servire gli interessi dell’impero anglo-americano”.
Pierpaolo Arzilla
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