Non ci sono più le bandiere di una volta. Ora, semmai, risultano,
ammainate. L’ultimo caso è quello di Paolo Maldini, vessillo sempiterno
del Milan, giocatore fino a quaranta anni, padre d’arte di un piccolo
gioiello calcistico, plenipotenziario rossonero nel ritorno in sella. Con al
capolinea uno scudetto e una stagione così così per merito della
concorrenza più che per demeriti della squadra di Pioli. Però i proprietari
sono stranieri, sono severi, guardano al business e ai risultati e dunque il
dirigente è stato fatto fuori dopo un burrascoso colloquio. Bisogna
abituarsi a questi scenari. Non è più calcio di una sola squadra, come
poteva essere per Totti (non per Del Piero, non dimentichiamo che ha
concluso la carriera in altra continente). Per sommo scorno dei tifosi,
degli aficionado al campanile, delle stesse figurine Panini, costrette a
cambiare vorticosamente colori per giocatori coinvolti nel ciclone di
mercato. Personalmente abbiamo intuito che non sarebbe stata più la
stessa cosa quando il rosso malpelo Conte giocatore di non eccelso
piede, cambiò tre squadre nel corso di una stagione. I contratti sono
formalità che possono non essere rispettate (vedi Spalletti al Napoli).
Carta straccia che ha sempre una contropartita, naturalmente in denaro.
L’etica e l’affezione sono finzioni collaudate. Il nuovo giocatore indosserà
la sciarpa con i colori sociali e giurerà eterna fedeltà a quella maglia, salvo
ripetere la scena in altre città, in altri club, fosse pure in altri continenti.
Del resto pallavolo, basket e pallanuoto, gli altri sport di squadra più
popolari seguono il trend. Dunque abituiamoci pure a un calcio
anaffettivo e senza etica. Per le bandiere rivolgersi al passato. Crediamo
alle persone più che ai club. Quelli non ci deludono. Così Paolo Maldini
non andrà mai in un’altra squadra, indelebilmente legato al Milan, nel
bene e nel male di questo amaro divorzio.
DANIELE POTO