di DANIELE POTO

Gianni Mura era indiscutibilmente il n. 1 del giornalismo sportivo. Ma un giornalismo sportivo che con lui muore e che non ha la forza di rigenerarsi con radici nuove e resistenti. Mura era la firma e gli sarò per sempre grato di aver scritto la prefazione di “Le mafie nel pallone” aderendo con sincero slancio ad un’ideale etico che era comune. Era la firma di Repubblica prima e dopo la pensione, il collega innamorato dei vini, del mangiare e del bere secondo un’etica coerente di bon vivant. Nel paragone con Brera probabilmente vince perché non aveva in sé lo stigma di un’impostazione lombrosiana vagamente razzista nei confronti dei “terroni” degli abatini, non aveva gli schemi rigidi e un po’ lumbard del Maestro riconosciuto. Mura poteva avventurarsi nei terreni del calcio e del ciclismo, cantore multi sport, letterato di buoni e riconosciuti punti di riferimento. Gioviale ed amicone nelle trasferte con un suo punto di vista sempre originale e mai banale. Ebbe un forte momento di crisi nella rivelazione di un doping svelato. Pentito di aver esaltato dei miti che avevano bisogno di una profonda rivisitazione come Pantani e Armstrong anche se la fascinazione del gesto eroico e un po’ epico ha sempre ispirato la sua prosa asciutta e mai ridondante ma con veri accenti di entusiasmo per l’impresa dell’eroe solitario, specie se italiano. Ha scelto di morire con discrezione, lontana dall’epicentro del coronavirus, a Senigallia, quasi in anonimato. Come i tanti personaggi che la pandemia in corso sta sterminando. Il giornalismo sportivo del dopo-Mura è quello che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di crisi con gli eventi bloccati dall’emergenza. Frottole di mercato, piani per il prossimo anno, fantasie con cui tentare di trattenere i pochi affezionati lettori. Quotidiani che si sfogliano in un amen e che ormai, forse, non servono neanche più per incartare il pesce, secondo antico adagio.