di CRISTIANO SACCHI

Lady Soul, la vocalist per eccellenza che con le sue cinque ottave di estensione era capace di connettere la terra con il cielo. Una gigante della storia della musica del XX° secolo, icona della cultura afroamericana e simbolo del movimento femminista. Donna tanto forte e caparbia nella sua vita artistica, quanto dolcemente fragile e vulnerabile in quella privata, Aretha Franklin nelle sue corde vocali ha un mix unico di gospel e blues, tutto quello che passa attraverso la sua voce, ne esce trasformato e rigenerato. Nasce il 25 marzo 1942 a Memphis, quarta di cinque figli, il padre è il reverendo Clarence Franklin, uomo di grande carisma e suo punto di riferimento, la madre Barbara Siggers è una cantante gospel, che godeva della stima di Mahalia Jackson. Aretha ha appena dieci anni quando inizia a suonare il piano e a cantare in chiesa, ed in molti, tra cui alcuni amici di famiglia come Sam Cooke e la stessa Mahalia Jackson si accorgono di lei. A quattordici anni incide già il suo primo disco per la Chess Records, Songs Of Faith. Nel gotha del gospel ci sarebbe entrata anche lei, e l’occasione ci sarebbe già quando Berry Gordy, il futuro “mister Motown”, e il suo braccio destro Billy Davis, bussano alla porta del reverendo Franklin in cerca di Aretha, ma lei è troppo piccola e non se ne farà nulla. In quello stesso periodo rimane incinta del suo primo figlio Clarence e a sedici dà alla luce Edward. Entrambi portano il suo cognome, il padre è un segreto che rimarrà per sempre privato. A diciott’anni si trasferisce a New York in cerca di fortuna, ed un suo amico musicista Major “Mule” Holly, la porta in studio per incidere una demo che si intitola Today I Sing The Blues. Il brano arriva nelle mani giuste, quelle di John Hammond, che non ha dubbi sul suo talento: sarà l’astro nascente delle Columbia, almeno nelle intenzioni. La casa discografica ha visto la stoffa, ma non riesce a valorizzarla fino in fondo, la Columbia l’aveva classificata come cantante jazz, ma non era mia stato il suo forte. Per farla emergere, alla fine le aveva provate un’ po’ tutte, tranne che lasciarla fare. La tanto attesa svolta arriva quando dalla Columbia passa all’Atlantic, dove trova Jerry Wexler, produttore che oltre a capire il suo talento, sa cucirle addosso il giusto sound. Il risultato che ne verrà fuori, sarà il miglior album soul degli anni ’60, sintesi perfetta di ballate struggenti, soul taglienti, blues e gospel carichi di sentimento e pathos. Tutto merito della voce di Aretha capace di infondere dentro ogni brano tutte le sfumature della sua anima. Il brano di apertura, Respect è iconico, colonna sonora della lotta per i diritti dei neri in America e poi, più tardi del movimento femminista, è una cover di Otis Redding che grazie alla carica di Aretha ha assunto un significato diverso, immortale, universale e sempre verde, insomma il buon Redding ringrazia. Drown In My Own Tears, è soul allo stato puro, dove piano e voce giocano a riempire gli spazi lasciati vuoti prima dall’uno e poi dall’altro, I Never Loved A Man The Way I Love You è un walzer-blues, reso affascinante dai fiati e dal suo piano martellante. Soul Serenade, sembra avere dentro di sé il germe che la porterà a composizioni come (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, Don’t Let Me Lose This Dream è il primo brano inedito di Aretha dal sapore jazz, scritto forse ai tempi della Columbia Records, Baby, Baby, Baby, chiude il lato A, una ballata blues con organo e piano, e dalle armonie vocali dal sapore gospel. Il lato B si apre con Dr. Feelgood, brano gospel-spiritual che ricorda quando la giovane Aretha si esibiva in chiesa dopo la predica del padre Clarence, Good Times, è l’amore per la cantante verso lo stile di Sam Cooke suo amico, Right Woman-Do Right Man, è una delicata ballata con venature country, altra richiesta di rispetto per le donne, questa volta commovente e accorata. Save Me, è brano soul-funky con un riff di chitarra squisitamente rock e ossessivo, con un groove di batteria che non lascia scampo, A Change Is Gonna Come altro brano di Sam Cooke, risposta alla sua maniera a Blowin’In The Wind di Bob Dylan, che grazie alla voce di Aretha diventa qualcosa di più intimo e personale. Testa, cuore e ugola, queste sono le tre qualità che deve avere una cantante e che lei aveva in abbondanza. Qualsiasi cosa cantasse ti arrivava dritto in faccia senza filtri, quello che diceva era rivolto singolarmente ad ogni persona, attraverso il canto Aretha si confidava con il mondo intero riguardo i suoi tormenti e successi. E questo disco e questo sound, erano solo il punto di partenza per qualcosa di ancora più grande.