di CRISTIANO SACCHI

Clarence Gatemouth Brown ha passato una vita ed una carriera a combattere il purismo, non solo per mescolare i generi musicali, ma per superare i confini culturali, con la sua musica e sopratutto con i valori che la musica gli ha insegnato. Nato a Vinton in Louisiana, ma cresciuto ad Orange in Texas, amava allo stesso modo questi due “pianeti”, ed è proprio da questo suo forte dualismo interiore che nasce la sua musica: un crossover di generi che spaziano dal blues al country al jazz e zydeco. La sua prima influenza musicale è stata il padre: Clarence Brown Sr. di professione ferroviere, nel tempo libero suona bluegrass e cajun. A cinque anni Clarence Brown Jr. è già in grado di accompagnarlo alla chitarra e a dieci impara il violino. E’ cresciuto ascoltando Count Basie e Duke Ellington, ma anche lo stile elegante e dinamico del nuovo blues postbellico di Louis Jordan e T- Bone Walker. E’ chiaro che con queste influenze, la sua idea di blues è piuttosto singolare e fuori da certi stereotipi. Improvvisando una sera al Bronze Peacock di Houston, Clarence rivela tutto il suo talento, che lascia non indifferente il proprietario del locale Don Robey, che diventerà anche il suo manager e poi discografico. Nel 1947 Gatemouth effettua le prime registrazioni per la Aladdin Records di Los Angeles, dove guida una intera orchestra, ma il suo genio viene a galla nelle registrazioni per la Peacock dal 1949 al ’61. La sua hit Okie Dokie Stomp del ’54, è un misto di texas swing e di jazz da big band anni ’50, con un pizzico di boogie e rock”n”roll. Il blues ha trovato finalmente un interprete versatile ed eccentrico che sa arricchire il suo sound con svariate contaminazioni. La sua lunga carriera segue la parabola già tracciata da molti artisti blues: la gavetta, il successo, il periodo difficile e le ripresa, per poi finire in un finale strepitoso che lo porterà ad incidere alcuni importanti lavori come questo disco. Gli anni ’80 sono il momento del suo rilancio e della maturità artistica che lo porterà a registrare Alright Again!, Grammy Awards per il miglior disco di traditional blues. Clarence oramai avviato verso i sessanta non ha perso il suo tocco, anzi come un buon vino la sua chitarra si è impreziosita ancora di più, le sovraincisioni nel disco sono pochissime e tutti gli arrangiamenti ed interventi sono calibrati per non pestarsi mai i piedi. Il disco si apre con Frosty e Strollin’ With Bones, blues ma con un anima jazz da big band, potremmo quasi definirli texas swing. Give Me Times To Explain prosegue con questa atmosfera da dancing room, Baby Takes It Easy si riavvicina al blues tradizionale, ma con una grande sorpresa: un sontuoso violino che parte con un assolo che ruba totalmente la scena con i suoi glissati, Sometimes I Slip, rientra nei canoni del vecchio slow blues, smorzando i toni dei precedenti pezzi e chiudendo il lato A. I Feel Alright Again apre il lato B, tutti gli strumenti lavorano insieme, si scambiano assoli e tracciano un tessuto sonoro ordinato e compatto, Alligator Boogaloo ha accenti funk che arricchiscono il parco sonoro delle contaminazioni di Clarence, Dollar Got The Blues è per quasi la totalità del brano uno strumentale che funge da jam session, dove la band può dare il meglio di sé. Honey In The Be-Bo è un pezzo allegro e giocoso con una melodia gradevole, Gate Walks To Board è uno strumentale infuocato, tirato dal primo all’ultimo secondo: la tempesta finale che chiude nel migliore dei modi il suo miglior lavoro discografico. Sembra una beffa per uno come lui vedersi nominato ai Grammy Awards per un album di traditional blues, lui che ha sempre combattuto il purismo, ma l’idea di tradizione si evolve nel tempo, e i grandi geni sanno creare capolavori che con il passare degli anni diventano standard e termine di paragone per le generazioni future, elevandosi, quindi, allo status di traditional.