di CRISTIANO SACCHI
“Non lavori e non puoi dormire nella nostra cantina per il resto della tua vita. Stai sveglio tutta la notte, ti comporti come una rockstar, ti vesti come una rockstar, e tutti credono che sei una rockstar. C’è solo il piccolo problema che non sai suonare uno strumento e che sei uno sfaticato. Ma magari, se ti dai una mossa puoi farcela”. E’ la prima volta nella storia che si sentono dei genitori consigliare a un figlio di fare la rockstar, ed è stato un gran colpo di genio. Il non ancora ventenne George Thorogood decide allora, sotto consiglio di un amico, di andare a vedere John Hammond, ed è ecco la scintilla: “Ho scelto il blues perché sapevo che era alla mia portata. Ho capito subito come suonarlo. E’ un genere classico, che parla a tante persone. E’ come quando apri un ristorante o un negozio e pensi a che cosa vendere: latte, pane, birra…quello che la gente compra tutti i giorni. Se avessi avuto una concessionaria, avrei venduto le Chevy, auto che la gente può permettersi e che vanno bene per tutti. Il blues avrà i suoi alti e bassi, ma non passa mai di moda. Con Chuck Berry non puoi sbagliare”. I risultati sono subito incoraggianti: apre i concerti per Sonny Terry e Brownie McGhee, l’impiego era per due settimane, ed entrambi i bluesman lo incoraggiano ad andare avanti nel suo percorso. Arriva la svolta elettrica, e George mette in piedi un trio con batteria e due chitarre senza basso, e sale su un furgone a caccia di date nella zona di Boston. “Ci siamo rivolti ad un agente per trovare degli ingaggi e abbiamo cominciato a suonare su e giù per il New England e la Delawery Valley”. Nel 1976, vengono notati da un tizio che li vide suonare in un Bar di Boston che conosceva qualcuno che lavorava per l’etichetta folk Rounder. L’etichetta discografica, non è pienamente convinta della band, ma il loro contatto insiste per poter dar loro un’occasione. I responsabili della casa di produzione, vanno quindi a sentire di persona la band dal vivo, e captano qualcosa nell’aria. Nel ‘77 esce così il loro primo album: un mix di aggressività e spregiudicatezza. I Destroyers, maltrattano i classici con una scarica di adrenalina travolgente, reinventando nuove sfumature nel blues del Delta. Il 1978 è l’anno di Move It On Over, che sulla scia del primo disco, trasuda grinta ed energia da far invidia ad una punk band. Il disco si apre con la title track, una versione rockeggiante del brano di Hank Williams, che si divide tra rock’n’roll, country e blues, il secondo brano è Who Do You Love, altro “selvaggio” classico di Bo Diddley, che nelle loro mani non perde di aggressività e dinamica. The Sky Is Crying, smorza l’enfasi dei primi brani: un classico slow blues grezzo e potente che rende omaggio al signore della slide guitar Elmore James. Cocaine Blues, ridà subito energia e vigore all’album: un altro country blues carico di adrenalina, It Wasn’t Me è un omaggio al suo idolo Chuck Berry e chiude il lato A. Il lato B risponde ai fuochi e fiamme del primo con una miscela di rhythm and blues e rockabilly travolgenti: The Same Thing di Willie Dixon ne è l’esempio. So Much Trouble è una altro tuffo nel country con chitarre indiavolate al seguito, si prosegue con I’m Just Your Good Things: pezzo dal sapore ballad Aerosmith di metà anni ‘90. Baby Please Set A Date è una bella sventagliata di chitarra slide a tempo di blues, mentre New Hawaiian Boogie, che chiude il disco, ripropone un infuocata slide guitar, ma questa volta a tempo di rock. E’ ancora blues revival con George Thorogood, succederà poi con Stevie Ray Vaughan e poi con Robert Cray. Il blues non passerà mai di moda.
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