di CRISTIANO SACCHI 

Dennis Greaves e Mark Feltman, rispettivamente chitarrista cantante e armonicista, sono i figli spaesati ed emarginati della South London di metà anni ’70: una città nelle città, anzi un quartiere con tutte le logiche del caso e del tipico panorama locale fatto di club e nottate musicali. E’ il 1977, l’anno in assoluto più iconico della storia del rock inglese quando Dennis Greaves, ignaro di tutto quello che stava accadendo intorno a lui, decide di mettere in piedi una blues band. Mark Feltman, vicino di casa e bravissimo armonicista è il primo ad unirsi, il bassista Peter Clark e il batterista Kenny Bradley completano il quartetto che in breve tempo conquista il pubblico delle serate sul Tamigi, rendendosi noti con il nome di Stan’s Blues Band. Il gruppo nasce così da un amicizia liceale e da una comune passione per il blues elettrico più classico, però purtroppo il progetto di Greaves prende forma solo alla fine degli anni ’70, quando del blues di Chicago nessuno vuole più sentir parlare, quel decennio ha ben altre urgenze da trasmettere ai suoi figli adolescenti. La band però ben presto viene identificata con l’ondata del Mod revival, una sorta di movimento controcorrente in seno alla ribellione punk rock. Fatto sta che, nell’incomprensione e nell’indifferenza generale che li circonda, la band suona tutte le sere nei locali londinesi attirando l’attenzione di qualche talent scout locale e facendosi a poco a poco la fama di giovani antagonisti dei Dr. Feelgood. Agli inizi del ’79, le cose cominciano a farsi serie: il manager Mickey Modern, propone ai quattro un contratto con una sotto etichetta della A&M Records, la M&L Records, istituita appositamente per pubblicare il loro primo singolo. Il nome del gruppo intanto cambia in Nine Below Zero, l’ispirazione viene da una canzone di Sonny Boy Williamson, uno dei padri del blues di Chicago. I promettenti demo della band, convincono l’A&M Records a puntare sul gruppo, promuovendoli e mettendoli sotto contratto. Il 1980 è il primo assalto dei quattro al mercato musicale: un live album registrato su uno dei palchi più famosi e storici di Londra: il Marquee. Live At The Marquee è il lancio in orbita dei Nine Below Zero, che diventano così una delle band più eccentriche della scena londinese, allo sbando tra punk, post punk, new waves e new romantics. L’intuizione della A&M Records è geniale e semplice allo stesso tempo: sfruttare la fama del club più frequentato, e farcire ad arte il disco con un sofisticato arsenale di cover che ripercorrono l’intera mappa del rhythm and blues. L’album si apre con Tore Down, nudo e crudo rock’n’roll condito da una armonica infuocata, Straighten Her Out è invece un rock/blues nel tipico mood Chicago Style, mentre Homeworking Written con il suo sapore anni ’50 manda in delirio il pubblico. I Can’t Help Myself e Can I Get A Witness, sono cover leggendarie e trascinanti, Ridin’ On The L&N è una altro rock/blues dove il suono dell’armonica supporta la voce in maniera mai banale. Il lato A si chiude con il capolavoro di Willie Dixon I Can’t Quit Your Baby dove si sente forte l’amore di Greaves per Jimmy Page. Il Lato B si apre con una loro composizione originale, Stop Your Naggin’, frenetica e infuocata, Hootchie Hootchie Coo e Wooly Bully sono due grandi cover al fulmicotone, mentre Got My Mojo Working è sontuosa per energia e tensione, Pack Fair & Square, ci riporta al classico mood anni ’50. Watch Yourself è un Chicago Blues di pregevole fattura. Il disco si chiude con Swing Job, dove il gruppo non si risparmia nulla per mettere in mostra le proprie doti di grandi musicisti e “veterani” del blues. Nine Below Zero, sono il blues che nasce in terra punk dove tutto è odio verso tutto e tutti, ma anche il figlio più scapestrato e ribelle, niente può contro chi gli ha donato la vita. Prima o poi si ritorna sempre alle radici per riscoprirsi e rinnovarsi.