di CRISTIANO SACCHI
Talento, versatilità e capacità tecniche assolute, questo era Gary Moore: un vero guitar hero spesso sottovalutato dalla critica, ma amato e invidiato da chi ha avuto il piacere di condividere il palco con lui. Nato a Belfast il 4 aprile 1952, Robert William Gary Moore debutta a sei anni cantando in uno dei concerti organizzati dal padre che di mestiere fa il promoter, a otto anni inizia a suonare la chitarra acustica. La prima canzone su cui si esercita è Wonderful Land degli Shadows, ma ne imparerà tante altre, ama il rock”n”roll di Elvis e dei Beatles, ed il blues entrerà nella sua vita solo più tardi. E’ il 1966, a Belfast vengono a suonare Jimi Hendrix e John Mayall con i Bluesbreakers, ed è proprio in queste occasioni che il demone del blues si impossessa di lui. A sedici anni, deciso a fare il musicista si trasferisce a Dublino dove si unisce agli Skid Row (da non confondere con il gruppo hair metal americano) fino al ’71 ed incide con loro tre album, mentre nel ’72 è tempo del suo primo disco da solista Grindin’ Stone, dove mette in mostra tutta la sua voglia di sperimentare. Nel ’74 si unisce ai Colosseum II, nati dalle ceneri dei Colosseum e dei Tempest. Moore sembra essere perfetto anche per il jazz-rock progressivo, così il suo background diventa sempre più eclettico. Esperienza, quest’ultima che dura fino al ’78 quando si unisce nuovamente ai Thin Lizzy, band a cui aveva già dato una mano, per sostituire il chitarrista Brian Robertson, e con loro registra il disco Black Rose. Non contento vola a Los Angeles e forma i G-Force, altra esperienza durata un solo album. Dopo aver navigato tra stili e diversi gruppi, Gary Moore affronta gli anni ’80 con un piglio decisamente heavy metal: il suo fraseggio si evolve, insieme a Van Halen diventa un punto di riferimento della chitarra di questa decade. La sbornia metal però inizia a stancare il chitarrista, che un giorno nel camerino prima di un suo concerto, scherza con il suo bassista Bob Daisley che gli consiglia di fare un disco completamente blues, un ritorno alle origini. “Sono stato fortunato a tornare al blues….io venivo dal blues. A Belfast, io e Rory Gallagher suonavamo negli stessi club e ci prestavamo le chitarre perché non potevamo permetterci le corde di ricambio!….Era una bella persona, io ero un ragazzino e aprivo i suoi concerti. Questa è la musica che suonavamo, quella con cui siamo cresciuti e che amavamo”. (Gary Moore) Still Got The Blues è il suo disco tributo al blues, la sua lettera d’amore alla donna amata per tutta la vita. Il lato A si apre subito con le fiamme: una rockeggiante Moving On, dove il chitarrista si destreggia tra fraseggi virtuosi e sprazzi di chitarra squisitamente blues old style. Oh, Pretty Woman è il primo vero omaggio al blues delle origini con Albert King alla chitarra, il pezzo è una dichiarazione d’amore alla versione di John Mayall, mentre il Chicago style di Walking By Myself di Jimmy Rogers con i suoi stop and go ha spesso rimandi hendrixiani. Still Got The Blues è la title track del disco, uno slow blues 2.0, dove Moore suona poche note ma tirate con tutto il pathos possibile. Texas Strut è il pezzo di chiusura del lato A: un boogie selvaggio e acido. Too Tired apre il lato B, questa volta è Albert Collins a duettare con Gary Moore, ed il risultato è un blues tirato al massimo, acido e squillante, King Of The Blues brano inedito di Moore è un omaggio ad Albert King con una sezione fiati da brividi, As The Years Go Passing è un brano soft che smorza un’ po’ i toni del disco, dove la chitarra lavora e ricama intorno al pezzo prima di rubare la scena con un sontuoso intervento solistico. Midnight Blues è una ballata crepuscolare che ci accompagna alla fine di questo viaggio sonoro in bilico tra moderno e traditional. Gary Moore proseguirà la sua carriera all’insegna della totale versatilità e sperimentazione che terminerà solo con la sua prematura morte all’età di cinquantotto anni. La copertina è una geniale idea dello stesso Moore, che ritrae sul fronte un bambino nella sua stanza, circondato da vinili intento a suonare la chitarra, e nel retro, è lo stesso Moore, ora uomo, che imbraccia la stessa chitarra. Sono passati decenni, dai vinili siamo passati ai Cd e alle foto a colori, ma gli album e quindi gli artisti, la chitarra (Gibson Les Paul) e l’amplificatore (Marshall) sono sempre quelli, fedeli nel tempo fino alla fine.
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