di DANIELE POTO

E più grigia che bianca la fumata che dovrebbe annunciare la prima pietra per i
possibili nuovi impianti di calcio rispettivamente per Roma e Lazio. Nel secondo caso
il cemento è ben confitto nello scheletro dello Stadio Flaminio, malauguratamente
abbandonato dal rugby del Sei Nazioni, lasciato invecchiare senza manutenzione da
un Comune colpevole che ora, con anni di ritardo, cerca di colmare il ritardo. Ma
l’impegno non può prescindere dall’iniziativa di un imprenditore privato. Il ruolo di
Lotito non è principale ma marginale vista la scarsa attitudine del patron laziale a
rischiare in proprio. L’assessore allo sport di Roma Capitale Onorato ha proposto di
imitare il restyling del Palazzetto dello Sport, oggi brulicante di squadre romane con
ripetizione di “tutto esaurito”. Ma le spese per il Flaminio crescono in progressione
geometrica rispetto al gemellino di viale Tiziano. Operazione ex novo invece per la
Roma con appuntamento per il 2027 per esperire tutte le procedure di agibilità e
sicurezza, respinte le pretese di Lega Ambiente con apposito ricorso. Comunque sia
in un caso che nell’altro il cammino non è facile né in discesa. Perché siamo a Roma,
perché la burocrazia nazionale è asfissiante, perché i precedenti non sono
incoraggianti e la penuria di capitali a disposizione un limite costante. Del resto
Milano non sta meglio e misura stenti cittadini con il continuo rimbalzo tra l’ipotesi
di uno stadio nuovo e la riconversione su un Meazza-San Siro ammodernato.
L’attuale investimento della famiglia Friedkin sull’Evertom non depone su un
accelerazione delle procedure. Le autorità (Coni, Comune, demanio) dovrebbero
comunque chiedersi che fine farà lo Stadio Olimpico che certo non è struttura
destinabile solo all’atletica leggera e alle improbabili partite della nazionale di calcio,
visto che quest’ultima preferisce spesso evoluire in provincia. Di cattedrali nel
deserto (v. Olimpiadi invernali 2026) ne abbiamo già viste troppe per ripetere
colpevolmente l’esperienza.