Una legione straniera polisportiva ha occupato lo sport italiano. Un lento processo di
invasione professionistica avviato dalla legge Bosman e poi perpetuato con la fitta
regolamentazione dei singoli sport. Nel campionato di calcio l’esterofilia è la prassi e
questo ha contribuito al magro reclutamento della nazionale, compresa la difficoltà
di individuare un centravanti all’altezza della situazione (sarà Raspadori?). Tra l’altro
il livello degli stranieri in quello che una volta veniva etichettato come “il
campionato più bello del mondo” non è di altissimo livello. Ronaldo ha preferito altri
lidi e il cannoniere emerito è Arnautovic, veterano del Bologna, di livello certo non
paragonabile a Mbappè, Haland o Lewandowsky. E che dire del basket dove
l’equilibrio sei stranieri/sei italiani gravita tutto a favore dei primi, regolarmente
reclutati per il quintetto base ma anche qui registrando uno scadimento della
qualità. Gli stranieri migliori evolvono in Spagna, Grecia, persino in Francia e
Germania, nonostante la messa in liquidazione agonistica delle squadre russe che ha
liberato fresca materia prima. Anche nei sestetti della pallavolo, nonostante la
fresca laurea di campione mondiale della squadra azzurra, l’identità nostrana
scarseggia. Illuminante il caso di Romanò (non un giovanissimo, ha 25 anni) che pur
essendo titolare della squadra iridata ha fatto tanta panchina nella squadra di club.
Questa situazione rende più difficile il lavoro dei selezionatori delle nazionali di
calcio, basket e pallavolo che devono valutare giocatori che hanno occasioni
agonistiche con il contagocce. E questo è anche il motivo perché i nostri sportivi
sbocciano tardi, tenuti nella bambagia per il rispetto delle gerarchie. Questa
condizione di dipendenza non ha restituzione. E’ ancora scarso il numero dei
tesserati italiani che militano nei campionati stranieri. Fa eccezione la pallavolo ma
alla voce “allenatori”. Le principali nazionali hanno infatti un tecnico cresciuto nel
Belpaese.

DANIELE POTO