Nel salomonico braccio di ferro tra le società sportive (meglio dire quelle calcistiche che sono un potere forte) e il rispetto della salute è inevitabile che abbia la meglio il secondo sull’asse di incerto equilibrio nei vortici di una pandemia che non sta risparmiando il mondo globalizzato e che picchia più duro fuori dai confini italiani ma non risparmia alcune regioni ampiamente a rischio contagio. La lunga deriva delle vacanze estive, dell’inevitabile assembramento elettorale e la coincidenza dell’inizio delle scuola sono tre fatti scatenanti per la nuova ondata a cui non si sa più che numero attribuire. Il Premier Conte sembra avere le idee chiare, come il più oltranzista, il Governatore del Lazio Zingaretti: le esigenze dello sport e del pubblico in questo  momento vengono dopo e sembra grottesco contrattare sulle percentuali (25 %?) quando anche quella minorità basta per provocare preoccupazione. Lo sport a porte chiuse è una necessità dei tempi e alla radicalità della decisione si sposa la stessa  omologazione degli ultrà che, di fronte a palesi e inoppugnabili limiti, preferiscono astenersi in base alla logica che un evento calcistico vada gustato interamente e senza limitazioni altrimenti è preferibile farne a meno. Certo, il botteghino langue, non così l’audience televisiva. Domina la virtualità in assenza di un pubblico caldo e presente. E le prospettive non sembrano migliori nei prossimi mesi con la possibile estensione dello stato attuale dal 15 ottobre fino al 31 dicembre 2020. Si potrebbe evocare la metafora dell’Ilva di Taranto: meglio un lavoratore malato o un disoccupato sano? Voteremo sempre per la seconda ipotesi perché la vita è più importante di un lavoro. Così nel calcio più dell’incasso, del business, delle necessità di bottega, del tifo. Tra l’altro entrando nel gioco delle percentuali è difficile estrarre i fortunati e si potrebbero creare nuovi contenziosi che rievocherebbero l’atmosfera di quando fu introdotta a regime, tra mille contestazioni, la tessera del tifoso.

 

DANIELE POTO