C’è un’aria nuova attorno al tennis italiano. E che non è fatta solo di risultati ma di
solide prospettive. Era dai tempi di Panatta e Barazzutti (successo in Coppa Davis
datato 1976) che non veniva inseminata una generazione qualitativamente così
promettente. Negli ultimi quaranta anni abbiamo avuto i Gaudenzi, i Sanguinetti, i
Volandri, mai quella densità di squadra che ci ha permesso di pervenire alla finale a
squadre ATP, sia pur perdendo contro l’ancor più solida Russia. Come giudicare una
sconfitta l’eliminazione al primo turno del meno che ventenne Sinner contro un
avversario situato ben meglio nella classifica mondiale e in capo a quattro ore di
match, anche considerando che l’altoatesino era reduce da un successo in un torneo
precedente? Fognini e Berrettini sono un duo da top 10 della classifica mondiale.
Sinner incalza e sono in ascesa Musetti, Travaglia, Mager e Caruso, non certo
Cecchinato e Seppi (quest’ultimo solo per motivi di età). Sembrano floride le
prospettive per la Coppa Davis anche se il format attuale sembra una pallida copia
rispetto al prestigioso trofeo che fu. Come spiegare questa infiorescenza di aspiranti
campioni? La risposta è problematica. Perché non c’è una scuola, un maestro unico
né la federazione può arrogarsi il merito di investire su talenti che nella maggior
parte di casi si allenano e pagano le tasse all’estero. Ha vinto il caso? Qualcosa di più
perché i Piatti e i Santopadre hanno saputo investire bene sui loro pupilli e i loro
meriti ora sono apprezzati anche all’estero. Non bisogna per forza essere dei grandi
campioni per diventare dei grandi tecnici. Questa messa a fuoco nobilita tutto lo
sport italiano dato che il tennis è uno degli sport primari ed è anche una disciplina
che, in virtù del proprio status professionistico, sta difendendo meglio il proprio
calendario anche se i casi di Covid si sprecano. Tra l’altro per ragioni anagrafiche si
sta per voltare pagina e tra non molto i nomi prestigiosi di Nadal e Federer saranno
archiviati.

DANIELE POTO