stevie_wonder_rhythm_and_blues_soul_funk_jazz_blues_98401_1920x1080Al primo posto degli album più venduti negli Stati Uniti, c’è ancora lui, Stevie Wonder. Piu’ di 40 anni fa in tutto il mondo si faceva conoscere “Songs in the key of life”, il capolavoro in cui il cantautore americano superò se stesso grazie a una serie di successi  intramontabili come “Sir Duke”, “I wish”,“Isn’t she lovely” e “Joy inside my tears”. Senza dubbio il suo disco più eclettico con canzoni accattivanti, capaci di convincere l’ascoltatore ballare; un sound a tratti più oscuro e serio e illustri ospiti come Herbie Hancock e George Benson. In ogni nota c’è tutta l’influenza nei confronti di tanti generi musicali: da un rock che si avvicina a Santana in “Cofusion”, si arriva al jazz lento e malinconico di “Easy goin evening”, passando
attraverso una disco che in quel periodo sta sempre più prendendo forma (“I wish”, “Black Man” e “Another star”), un pop melodico simile  al prog in“Joy inside my tears” e persino la danza classica in “If it’s magic”, con uno straordinario Dorothy Ashby che accompagna le tastiere con la sua arpa.
Dopo l’album precedente, “Innevisions”, pubblicato nell’agosto del 1973, l’attesa per qualcosa di nuovo è stata lunga. Il lancio di “Songs in the key of life” era stato annunciato per la fine del 1975, ma l’uscita venne posticipata per via della maniacale accuratezza tecnica e sonora da parte dell’artista. Si dice infatti che in quel periodo, Stevie Wonder rinunciasse perfino al sonno notturno e ai pasti in orari tradizionali. L’obiettivo era “dare in pasto alle
orecchie di tutto il mondo qualcosa di magico, di straordinariamente forte ma con raffinata delicatezza. Qualcosa di perfetto”. E lo sforzo è stato ripagato. “Songs in the key of life” è rimasto al primo posto delle classifiche di tutto il mondo. Ci vollero ben 13 settimane affinché l’altrettanto mitico“Hotel California” degli Eagles, riuscisse a scavalcarlo. Unico apparente difetto: la sua ecletticità che non permette, magari, di apprezzarlo al primo ascolto. Un difetto che in fin dei conti si rivela un pregio: qualsiasi sia il gusto musicale di una persona, questa non può fare a meno di dire “Mi piace” (Parafrasando il click su Facebook) almeno a una canzone dell’album.

Eugenio Bonardi