Non ci sono voluti neppure i segnali di fumo per capire che oggi, al Roland Garros, l’indiano Djokovic avrebbe accerchiato Fort Apache al fine di prendere lo scalpo di Custer Ruud ed entrare di fatto nella storia del tennis: 23 Slam vinti (record di tutti i tempi) alla veneranda età di 36 anni, due quarti del Grande Slam in saccoccia, il ritorno in vetta alla classifica mondiale (a scapito del pivello Alcaraz) e due milioni e trecento mila euro in cassaforte, giuste giuste per alleviare le sofferenze passate, per la verità più politiche che tecniche. Questo è valso l’assedio di tre ore e un quarto del serbo al fortino norvegese, assedio che era partito in sordina, con Custer Ruud che non ne voleva sapere di alzare bandiera bianca; così alla terza palla break, il nordista sguainava la spada dal fodero per strappare il servizio al suo rivale e issarsi 3-0 e 4-1 prima di subire il veemente assalto dell’indiano Djokovic che scoccava la freccia del sorpasso facendo sanguinare Ruud. La ferita del nordista si apriva copiosa nel tie-break quando, nel corpo a corpo, l’indiano serbo infliggeva sette punti (di sutura?) senza dare scampo a Custer Ruud. Così, dopo un’ora e venti di duello poco rusticano, Djokovic si trovava in vantaggio di un set, e ben presto anche di un break, con il sanguinante nordista che inesorabilmente indietreggiava di fronte alla furia agonistica del number one. I set di vantaggio erano due, un 6/3 (che poteva anche essere 6/2 se Djokovic non sprecasse due set point) abbastanza eloquente. Ad un passo dal baratro ma con grande dignità, nella terza frazione Custer Ruud tentava una strenue difesa, isolato dal contesto nella piana di Little Big Horne, e resisteva nove games prima di subire le ultime dodici coltellate del selvaggio Djokovic, equivalenti ad altrettanti punti, che ponevano la parola fine all’agonia del nordista. Tre set a zero e braccia al cielo per il campione serbo, ancora una volta il grande spirito di Manitou lo ha guidato verso il successo.

Andrea Curti