Quando a 19 anni nel giro di due mesi, vinci due Masters 1000 su due superfici diverse e in uno, quello di Madrid, metti in fila la vecchia generazione (Nadal e Djokovic) e un pretendente al trono (Zverev, con Tsitsipas già battuto a Miami e Barcellona), allora il frutto è maturo. Lo spagnolo Alcaraz è sbocciato con la primavera ed era da aspettarselo viste le premesse, ovvero ultime 17 partite giocate e una sola sconfitta in quel di Montecarlo contro Korda (striscia di 10 vittorie consecutive), e ben 4 tornei vinti da inizio anno (nessuno come lui nel circuito) che lo hanno proiettato al numero 6 del mondo, scalzando Berrettini e gli altri. I dati che lo riguardano sono impressionanti, come la sua forza fisica, come l’impeto che ci mette quando combatte in campo. Ma il tennis è altra cosa. E’ poesia, è divertimento, è volée, è demi-volée e via dicendo. Lì non ci siamo proprio. Allo spettacolo francamente Alcaraz concede poco, incarnando l’estremizzazione del tennista moderno tutto fisico e bordate, una sorta di robocop con la racchetta che finisce per sfiancare gli avversari in maniera meccanica. Insomma manca la fantasia al ragazzino, quella che fa innamorare le platee. Ma la colpa non è sua, è figlio dei tempi.
Andrea Curti
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