Miami ha consacrato una stella, lo spagnolo Carlos Alcaraz, ragazzino terribile della ennesima covata iberica che, a soli 18 anni, ha vinto con merito il primo Masters 1000 della sua carriera. Ora lo spagnolo sarà numero 11 del mondo scalzando l’altoatesino Sinner che proprio in Florida difendeva i punti della finale raggiunta e persa lo scorso anno contro il polacco Hurkacz. Ma, perchè c’è sempre un ma, ci si chiede se il futuro del tennis di oggi sia ancora più imprigionato nei meandri di figure boscaiole tipo Alcaraz, il cui idolo è guarda caso Nadal (mister 21 Slam per intenderci) con cui condivide persino quelle canotte da palestrato mostrate dal primo Rafa quindici anni o giù di lì fa. Pensavamo di esserci definitivamente allontanati da picchiatori incalliti stile Berasategui e la sua impugnatura inguardabile, alla gogna mediatica quando raggiunse il basco la finale del Roland Garros nel 1994. E invece c’è ancora chi scambia una racchetta per una clava e mette su ogni pallina tutti gli addominali in possesso, tutta la tamarraggine dei bicipiti scolpiti come un dio dell’Olimpo. Certo, l’invidia per un fisico da modello potrebbe anche prendere il sopravvento, tuttavia è la questione sportiva che tiene banco: è questo il tennis che vogliamo? E’ soltanto questo il futuro del tennis o c’è dell’altro? Con Federer vicinissimo al ritiro e con Nadal e Djokovic che l’età tiene ancora lì e chissà ancora per quanto tempo, e nel mentre Zverev non trova la continuità di gioco e la pace con sé stesso, gli italiani più forti (Berrettini e Sinner) cadono nelle trappole degli infortuni, Medvedev deve essere addirittura operato per una ernia, rimane il prode Tsitsipas come il Leonida spartano in 300 a lottare alle Termopili contro migliaia di persianici tennisti che brandiscono inferociti racchette quasi fossero spade di un ferro ultra pesante, appena uscite dalla fucina di Vulcano. E’ veramente questo il tennis che ci piace o potremmo e dovremmo attivarci per fare uscire questo sport dal far west tecnico degli ultimi 20 anni (almeno)? Abbiamo, a parte il greco, barlumi di speranza (vedi Fritz, Shapovalov e pochissimi altri), tuttavia la finale di Miami raggiunta dal norvegese top-ten Ruud per la gioia del padre (onesto pedalatore) che non avrebbe mai osato nemmeno immaginare, è il segno della pochezza dei tempi. Anche per questo “Fuga da Alcaraz” sembra l’unica evasione innocente possibile per non venir imprigionati a vita in un tennis miseramente solo muscolare..

Andrea Curti.