Non è neanche terminato il 2022 che è già ripartita la stagione 2023; fermo restando le mega esibizioni negli Emirati, di cui non vi abbiamo dato traccia per “scelta deontologica”, ecco pronta la famigerata United Cup, ultima “geniale” trovata degli organi tennistici internazionali tutti (ITF, ATP e WTA), che va a sostituire la ATP Cup, durata due edizioni e poi miseramente accantonata (dicono) per la somiglianza con l’attuale Coppa Davis (o era il contrario?). Regna insomma il caos, questo si era capito. Non bastavano i challenger in Polinesia, in Thailandia o nella capitale Canberra per aprire la stagione agonistica (oltre a quelli indoor portoghesi o sul rosso sudamericano), challenger fondamentali per prepararsi ai tornei australiani importanti, da Adelaide 1 e 2, Auckland e soprattutto gli Australian Open, con il 250 indiano di Pune a far da ciliegina sulla torta aussie, non per altro per la vicinanza geografica. Era “necessaria” pure la United Cup, 18 squadre nazionali miste (2 singolari maschili, 2 singolari femminili e 1 doppio misto) divise in sei gironi da tre squadre, che giocheranno sul cemento di Sydney, Perth e Brisbane, tutte con la “grande ambizione” di iscrivere il loro nome per la prima volta nell’Albo d’oro. C’è anche l’Italia al via, con Berrettini e Musetti tra gli uomini, Trevisan e Bronzetti tra le donne, e i doppisti Vavassori, Bortolotti e Rosatello (Capitano non giocatore: Vincenzo Santopadre). Come attirare i grandi giocatori? Semplice, mettendo 15 milioni di dollari di montepremi e 500 punti massimi per i ranking del singolare (il secondo è l’unico elemento che ci ha spinto a scrivere queste poche righe). Ma la domanda sorge comunque spontanea: non se ne poteva fare a meno?

Andrea Curti