Fuga da Alcaraz o l’Uomo Ruud: chi dei due scegliere? Entrambe le soluzioni non posso piacere ai veri amanti del tennis, di quello più tecnico, più puro. Però la storia ci dice che la finale tra lo spagnolo e il norvegese (mo’ pure i norvegesi….) non solo consegnerà ai posteri il 152° campione degli Us Open ma addirittura lo scettro di number one, peraltro in quell’infausto 11 settembre (la strage delle Twin Towers per intenderci) che tanto ha rivoluzionato le nostre vite. E rivoluzionerà le vita sportiva del vincitore. Perché se Alcaraz è un predestinato, già battezzato mesi fa da Djokovic come futuro numero 1, con la speranza di diventare il più giovane Re del ranking (19 anni, 4 mesi e 6 giorni, per la cronaca) rientrante peraltro nella stretta cerchia dei “poco oltre i teenagers” vincenti (Chang, Becker, Borg, Wilander, Sampras, Nadal), Ruud invece è una novità in costante progressione da due anni a questa parte. Ha lo scandinavo iniziato come terraiolo a vincere e dominare sul rosso (solo Nadal lo ha stoppato al Roland Garros) per poi migliorarsi sul cemento, apportando quegli accorgimenti tecnici (anticipo dei colpi, gioco di volo e servizio più incisivo) abbinate ad una resistenza fisica eccezionale, che lo hanno portato lassù, ad una partita dall’Everest tennistico. Fare pronostici non ha neppure senso, al di là di simpatie e antipatie. Gli scontri diretti dicono 2-1 Alcaraz, con i precedenti tutte su superfici diverse (quello più significativo è il 2-0 dello spagnolo a MIami lo scorso 3 aprile) ma a vedere l’andamento del torneo, lo stesso Alcaraz ha vinto le ultime tre partite al quinto set stando in campo quattro ore col croato Cilic, cinque ore e venti con Sinner e quattro ore e ventidue con lo yankee Tiafoe (13 ore e quarantadue minuti in totale!). Ruud invece ha sofferto solo con un attaccante puro come l’americano Paul (quattro ore e ventitré minuti per venirne a capo) al terzo turno, per il resto ha lasciato le briciole. Come a Berrettini. A proposito, si parla di “Italian style”, di “fenomeni” italiani: i veri fenomeni sono quelli che arrivano in fondo, e in un torneo senza Djokovic, Federer, Zverev, e con le premature eliminazioni di Nadal e Medvedv, gli azzurri potevano e dovevano fare di più dello storico quarto di finale (raggiunto per la verità contro avversari modesti: Berrettini ha rischiato contro la prima parvenza di buon giocatore che si è trovato di fronte, lo spagnolo Fokina, mentre Sinner ha mpegato cinque set per abbattere la resistenza al primo turno dell’anonimo tedesco Altmaier e negli ottavi del bielorusso Ivaskha, a cui ha recuperato un break proprio nel quinto set…). Berrettini non regge il ritmo sui tre set su cinque, e poi gli avversari lo conoscono e lo martellano da fondo campo sul suo punto debole, il rovescio. Coach Santopadre deve provare più soluzioni, in parte sembra aver trovato la chiave di volta sull’erba ma sul cemento ancora non ci siamo. E Sinner poi che appare di ghiaccio, in realtà è capitato anche altre volte di sciogliersi emotivamente al momento di chiudere un match. Al posto di Alcaraz poteva e doveva esserci lui: si è detto su quell’incontro tanta di quella retorica da far rabbrividire, tipo che ci sono stati due vincitori e due sconfitti. Nel tennis questi concetti non esistono. C’è sempre un vincitore e uno sconfitto e Sinner ha perso. Punto. Per cui, alla luce di quanto espresso, a noi la spedizione azzurra agli Us Open è apparsa un fallimento completo. Stesso Musetti ha avuto la chance di entrare negli ottavi e dar vinta ad un ipotetico intrigante derby con Sinner, ma se l’è fatta sfuggire. Si, gli azzurri sono giovani, ma ci sono altri ragazzi che adesso corrono di più e meglio.

Andrea Curti